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Un Ing. alla scoperta dell’Etiopia – Epilogo

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Durante tutto quest’anno, ho sempre cercato di risparmiarvi i bambini.

Come è anche giusto che sia, i bimbi ti rendono la vita facile: un paio di foto circondati dalle loro faccine sorridenti, soprattutto se sullo sfondo si intravede un rubinetto o un paio di banchi, e boom, jackpot. L’indice di popolarità schizza alle stelle, le tue eroiche imprese verranno tramandate a posteri e vicini per generazioni, e (e mettiamoci pure un soprattutto) gli incassi volano che neanche a un soldout degli U2.

Poco importa se la realtà dietro a tutto ciò non sia meno plastica e artefatta della foto stessa. Se gli stessi infanti che stai così affettuosamente abbracciando a dozzine con te non ci abbiano mai scambiato mezza parola, perché loro l’inglese non lo sanno – a parte MoneyGive!, GimmeTheMoney! e annessi e connessi vari, e state certi che quello sì, ve lo ripeteranno in continuazione anche se sono così belli e teneri e innocenti –  e tu figurati se ti metti di impegno con qualche astruso dialetto africano. Cioè, dai. È molto più semplice scattare a raffica per un paio di pomeriggi con la tua bella reflex la cui sola vista li manda fuori di testa, specie se coadiuvata da un pallone e da abbondanti elargizioni di dolciumeria assortita. Fai il pieno di immagini da Libro Cuore da schiaffare su calendari, campagne natalizie e social network vari e a quel punto ci sei, stai al top. A quel punto chi si è visto si è visto. Au revoir, ma anche no.

Oppure, la macchina la tieni nel fondo dello zaino, almeno per un po’. Per il tempo necessario a farli smettere di chiamarti china prima, e ferenji, poi, perché cazzo tu un nome ce l’hai e, se ti vogliono parlare, che lo usino. E se vogliono i soldi, beh, non ti tappi le orecchie girando la testa dall’altra parte perché, diamine, un batuffolino tale è impossibile che chieda una cosa così fastidiosa come la carità: lo prendi al volo e gli tiri una cazziata, magari imparandoti quelle quattro parole nell’astruso dialetto africano che bastano a fargli capire che non sei una banca (cosa che, per inciso, ogni tanto andrebbe ripetuta pure agli adulti).

Non saranno contenti, all’inizio. È probabile anche qualche lancio di sassi (chiaramente seguito da ulteriore cazziata). Però poi, pian piano, le cose cambiano. Inizi a sentire qualche Arko, Mark, FerenjiMar! andando al lavoro al mattino. I più coraggiosi fanno a gara tra loro a chi si avvicina di più. A chi riesce a batterti un veloce “cinque” prima di scappare a gambe levate. E il giorno dopo uguale, solo corrono via un po’ più piano. Poi non corrono via più, e ogni tanto ci infilano un rapido “Selam nou?”. Poi, un giorno, sono tutti lì e son tutti chiacchieroni e se qualcuno ancora ti chiede i soldi gli altri lo cazziano al posto tuo e quando finalmente arrivi al lavoro il tuo capo cazzia te perché sei in ritardo di mezz’ora. Ti prendi il rimprovero, e ci mancherebbe, ma sotto sotto te la ridi. Forse forse, ora ci sei per davvero.

Ho lasciato Telalak, tre giorni fa, senza alcun clamore. Di corsa, con le robe scagliate in valigia, nella speranza di raggiungere in tempo Addis per sistemare delle noie burocratiche impreviste (missione fallita peraltro, arriverò a casa con qualche giorno di ritardo). Non certo l’addio che avevo in mente, ma alla fine va bene così. C’è stato il tempo per un ultimo pranzo con Rik, per i meravigliosi regali dei miei colleghi, per salutare Awa, la signora che da sei mesi mi vende il pane. Per un ultimo bagno di Marco, Marco, MARCO!, ora forte e chiaro. Non sapevano che me ne stessi andando, il mio autista mi ha detto che glielo spiegherà al suo ritorno. Forse è meglio, le scene da Libro Cuore non fanno per me.

È stato un anno strano, questo. Senza amore a prima vista, senza lacrime all’addio. Al pari che con i bambini, il mio rapporto con l’Etiopia si è sviluppato lentamente, mattone su mattone, dopo ogni piccola gioia lavorativa, piatto nuovo o colossale incazzatura.

Quest’anno non è volato, come fa tanto figo dire quando vivi lontano da casa, o almeno non tutto, non sempre. Ai periodi di attività frenetica si sono alternati quelli di stanca, ai momenti de Io non voglio più tornare indietro quelli de Quanto diavolo manca all’aereo.

Osservando il quadro nel suo insieme, va bene così. Non credo che lascerò qui un pezzo di cuore, è troppo piccolo e ci sono troppe cose che voglio fare nella vita per potermelo permettere. Tuttavia, ho un mucchio di immagini davanti agli occhi, e quelle, gente, non me le leva nessuno.

 

Le mille cene io e Rik, Rik e io, nel nulla di Telalak.

L’injera. Sempre e comunque.

Assistere alla posa del primo serbatoio che hai progettato.

Una mail di ringraziamento di Silvia, che ti dà la spinta a dare il massimo.

Le donne etiopi che ballano l’Eskista.

Arko, Mark, FerenjiMar!

 

Potrei andare avanti ancora tanto, mi fermo qui. È il momento in cui si dice “alla prossima”, ma in questo caso la vedo dura. Salvo sorprese dell’ultima ora, non credo che tornerò in Etiopia a breve. Fa strano andarsene, Fa strano tornare. Ad ogni modo, a voi, che questa rubrica avete seguito dall’inizio o da quest’ultimo pezzo, e a questo paese, che mi ha fatto da casa negli ultimi undici mesi, credo di dover ancora qualcosina.

 

Grazie, o amesaghenallo.

 

di Marco Pozzoli

 

Lo staff Afar carico per un matrimonio locale.

Lo staff Afar carico per un matrimonio locale.

 

Rischiare la vita per una grondaia...

Rischiare la vita per una grondaia…

 

I doni più belli.

I doni più belli.

 

IMG_9152

Un ringraziamento particolare mi pare il minimo…bella Rik!

 

 

...e grazie anche a te, Telalak.

…e grazie anche a te, Telalak.


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